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L'Aquila 13 aprile 2011 Convegno nazionale SPI "Ricostruire il futuro: proposte a due anni dal terremoto"

  • Apr 14, 2011
  • By  Redazione
Pubblicato in Ricostruzione
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Quello che doveva essere il più grande cantiere d’Europa è fermo. Mentre l’Italia ricorda il sisma che il 6 aprile 2009 ha distrutto l’Aquila provocando 300 vittime, il 13 aprile lo Spi ha realizzato a l'Aquila un convegno nazionale con l’obiettivo di raccogliere tra gli esperti proposte per ricostruire il futuro di una delle più belle città italiane.

invito programma Il convegno si è tenuto presso l’Auditorium Cgil, in via Saragat. A partire dalle ore 9,30, Giovanna Zippilli, segretaria generale Spi Cgil Abruzzo, Loretta del Papa, segretaria generale Spi Cgil l’Aquila, Mario Sai , Spi nazionale, hanno presentato i temi del convegno. Sui “problemi della rinascita sociale e urbanistica dell’Aquila” sono intervenuti Vezio De Lucia, Umberto Allegretti ed Enrico Pugliese. Sulle “risposte del territorio”, è stata data la parola al sindaco della città, Massimo Cialente, a Ferdinando di Orio, rettore dell’Università, Umberto Trasatti, segretario generale Cgil l’Aquila, Annalucia Bonanni, comitato cittadino 3 e 32. Ha chiuso i lavori Riccardo Terzi, segretario nazionale Spi Cgil.

6 aprile 2009: L’Aquila non dimentica la notte del terremoto

Il ricordo, la rabbia, la rassegnazione: ma la ricostruzione può essere occasione di sviluppo. Gli 80 mila cittadini abruzzesi travolti dal terremoto hanno subito, come se in Italia non fosse successo mai niente, la ripetizione degli errori di sempre: grave sottovalutazione per quanto riguarda la prevenzione dei rischi e una ricostruzione segnata da appalti irregolari e abusi e da scelte urbanistiche sbagliate. Eppure non mancavano certo, in positivo e in negativo, esempi precedenti di ricostruzione dopo i terremoti che hanno colpito l’Italia nei decenni passati. Le lezioni del passato che il governo ha ignorato Nel Friuli Venezia Giulia, nel 1976, dopo un solo anno i 40.000 sfollati erano sistemati in case di legno pre-fabbricate, si era completata la messa in sicurezza, si era avviata la ricostruzione, completata poi in dieci anni. Lo stesso si era fatto a Tuscania, nel Lazio, nel 1971 (in due anni i 5.000 sfollati erano rientrati nelle loro case) e in Umbria, dopo il ’97. In questi casi le comunità locali divennero protagoniste della ricostruzione e nei cantieri furono garantite assunzioni regolari e assenza di incidenti sul lavoro. Dove, invece – come a Gibellina, in Sicilia, nel 1968 o in Irpinia, nel 1980 – si è intrapresa la strada delle grandi opere, delle “new-town” malamente “abbellite” dalle opere d’arte, il risultato è stato lo stesso: speculazione, malaffare e malapolitica, tempi e costi enormemente dilatati, comunità lacerate, perdita di senso nella coesione sociale e nello sviluppo economico.

Ricostruzione: esclusi i cittadini. Dopo il sisma che ha colpito l’ Aquila del 6 aprile nessuno ha potuto scegliere. La cittadinanza non ha avuto voce in capitolo: in parte si è dovuta convincere, in parte si è convinta; in parte si è sentita impotente, messa ai margini. C’è una città abbandonata ed impraticabile, ci sono ritardi nel rilevamento dei danni, una mobilità sempre più caotica, un consumo di suolo eccessivo. I comitati cittadini hanno fatto i conti: Se i milioni spesi per le tendopoli (30 euro al giorno a persona), gli alberghi (52 euro al giorno) ed il “Progetto Case” (2.700 euro al metro quadro) fossero stati investiti per case di legno (750 euro al metro quadro) e in buone strutture rimuovibili (1.000 euro al metro quadro) si sarebbero realizzati 39.000 posti letto (più del doppio di quelli realizzati). Che un’altra ricostruzione fosse possibile lo ha dimostrato il progetto Eva (eco-villaggio auto-costruito) a Pescomaggiore. Su terreni concessi in comodato da alcuni abitanti del piccolo centro, è stato pensato un villaggio di bilocali e trilocali a basso costo e a minimo impatto ambientale nel rispetto delle norme antisismiche ed edilizie. I cittadini sono stati coinvolti in fase di progettazione, hanno potuto dire la loro sulle tipologie delle abitazioni, la sistemazione interna e la scelta della tecnologia costruttiva. Nelle condizioni date la città fatica a sopravvivere. Se prima del terremoto i due terzi circa degli abitanti vivevano in centro e il resto in periferia, è molto probabile che nel prossimo futuro diminuiscano gli abitanti, si invertano i pesi residenziali fra centro e periferia e sia più misera la qualità della vita. Tuttavia, dopo la fase di emergenza, non si sono ancora individuate strategie di lungo periodo che, oltre a risolvere i problemi immediati, determinino un avanzamento della cultura della progettazione urbanistica e territoriale. Di fronte alle grandi sfide la pratica di partecipazione dei cittadini nel progetto di ricostruzione della città viene, invece, con più forza negata. Nell’accumularsi di ritardi assistiamo a una crisi e a un impoverimento dei legami personali e di comunità.

Tessuto sociale a rischio. Lo segnala la ricerca, conclusa nel 2010, coordinata da David Alexander e che ha coinvolto l’Università dell’Aquila, oltre a quella di Firenze e delle Marche ed ha riguardato un campione di 15mila terremotati. Gli intervistati segnalano l’assenza di servizi, di luoghi in cui ritrovarsi, di trasporto pubblico, ma soprattutto il 71% di essi dichiara che la comunità è morta con l’arrivo del terremoto.
Accade così che nelle “new town” i giovani tra i 18 e i 30 anni non socializzano: il 68% degli intervistati vorrebbe lasciare al più presto l’attuale abitazione. Distruzione del tessuto sociale: questa è la drammatica questione con cui ci si deve misurare, perché le conseguenze sono immediate, a cominciare dalle condizioni di salute. Soffre o ha sofferto di stress il 43% dei terremotati, ma tra le donne il dato raggiunge il 66%. Aumentano i casi di depressione, effetto del senso di isolamento e dell’emarginazione che riduce le prospettive per il futuro. Questa situazione ha colpito particolarmente gli anziani, che all’Aquila erano molto presenti: prima del terremoto il 40% dei cittadini aveva più di 65 anni. Nella fase dell’emergenza nelle tendopoli erano il 70% (su 26.800 sfollati) e quattromila avevano più di 75 anni. Hanno subito un’esperienza di perdita di senso, di crisi delle relazioni familiari ed amicali, di scomparsa dei punti di riferimento e della sicurezza che dà sentirsi parte di una comunità. Spi, Cgil, Auser attraverso il lavoro volontario, soprattutto la straordinaria mobilitazione delle donne nei comitati hanno fronteggiato con una serie di iniziative una situazione mai vista prima: non era mai successo che le persone, a cominciare dagli anziani, fossero lasciate così tanto tempo, esautorati da qualunque attività o decisione, in tendopoli, tra loro non comunicanti, spesso “militarizzate”. Un progetto per il futuro Nella fase di ricostruzione, nelle case “provvisorie” ma “a durevole utilizzazione”, sono andati molti anziani e persone dalle modeste condizioni economiche, la cui condizione di vita è assai probabile sarà irreversibilmente cambiata da questa scelta. Eppure la ricostruzione dell’Aquila rappresenta anche una gerande occasione di sviluppo. Per coglierla occorre il protagonismo delle comunità locali ed un potenziamento delle capacità organizzative, amministrative, istituzionali del territorio. Serve, soprattutto un’idea di futuro che faccia riprendere all’Aquila, dopo la crisi del polo elettronico (da 5.000 a 250 occupati) la strada dell’innovazione: economia della conoscenza e centralità dell’Università; nuovi prodotti e servizi innovativi; energie rinnovabili; mobilità sostenibile. Progettare il futuro è anche la condizione per non perdere il patrimonio di storia, arte e cultura di questa città.

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